Arrampicate sportive ed alpinistiche ad Arco nella Valle del Sarca
 

La nevrosi Kalokagathia - la nevrosi della bellezza

Racconto di Heinz Grill

Nella psicologia si osserva un fenomeno che rende la guarigione da patologie psichiche del tutto impossibile. Alcune persone salgono su una montagna e danno poi al monte la colpa per le asperità incontrate. Finché il paziente non fa altro che allontanare da sé la colpa per la sua malattia e la assegna alla montagna o ai compagni, gli mancherà ogni capacità di autovalutazione e la sua psiche non potrà liberarsi dalle cattive abitudini e indisposizioni che si sono annidate in essa.

A questi pazienti, o si potrebbe dire a questa strana specie, si deve aggiungere me, così almeno mi è stato detto. I lamenti e i piagnistei sulle vie, per esempio che è troppo bagnato, troppo freddo o anche troppo caldo, troppo difficile, troppo ripido, che gli appigli sono troppo rotondi eccetera, sarebbero solo fenomeni secondari derivanti da una anomalia psichica. La malattia principale sarebbe una grave nevrosi, che inizia con una rupofobia (l’ossessione di pulizia- la paura dello sporco) e culmina alla fine nella totale ossessione per l'ideale di bellezza di una via. Per tranquillizzare si può precisare che tanti alpinisti soffrono di questa strana manifestazione sintomatica. Deve essere definita come Nevrosi Kalokagathia, l’ossessivo desiderio di bellezza. Il laico probabilmente non sarà ancora venuto a conoscenza di questa patologia non rara degli alpinisti. Negli ambiti professionali della psicologia però passa per incurabile e spesso associato al fatto che il paziente si dimostra del tutto irragionevole e qualora un dottore cerchi di informarlo della sua anomalia psichica quasi sempre proietta la sua colpa su altri.

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Penultimo tiro. A destra sopra si vede il camino "cadente".
Eravamo sulle rocce della parete Sud del Ciavazes. Dopo aver superato un meraviglioso pilastro nella parte alta della parete, a destra del camino d’uscita della Micheluzzi, abbiamo cercato un’uscita adatta verso la cima. Sorprendentemente la roccia in questa parte superiore è diventata estremamente sporca e friabile. Tutta la zona era, si potrebbe dire, “cadente” e un intero pilastro minacciava di crollare. Dei blocchi di un velenoso giallastro con strisce marroni di sporco erano il tratto caratteristico del camino finale. Incombeva uno strapiombo con detriti, senza possibilità di assicurarsi. Le rocce slegate, unite solo da argilla, erano per di più bagnate e coperte di muschio. Barbara, la mia accompagnatrice, mi riferiva con parole vivaci che questa sarebbe stata definitivamente l’ultima Prima Salita che avrebbe realizzato con me. Io stesso imprecavo contro la roccia, la via e i blocchi grondanti d’acqua e, siccome non riuscivo ad uscire neanche per un minuto dalla mia nevrosi ossessiva sentivo di dover ricoprire addirittura l'intera montagna con una serie di rappresentazioni che è meglio non mettere per iscritto. 

Una nevrosi è infatti un’ossessione forzata e chi si è posto come obiettivo la bellezza non può sopportare in nessun modo il brutto: reagisce con pugni e impeti di rabbia. Sì, tengo troppo alla bellezza e non sopportavo la zona irregolare e aritmica offerta da quelle miserabili qualità di roccia. In passato giravo fra le più raccapriccianti rocce con placche di detriti, però da quando vivo in Italia e dopo aver assaporato a sufficienza il Paese della bellezza, dovevo inevitabilmente sviluppare la Nevrosi della bellezza, la Nevrosi Kalokagathia. Colpevole per la mia malattia non è quindi una personale predisposizione bensì lo sono gli italiani, per il loro incantevole Paese con le Dolomiti dai colori vistosi.
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Il traverso a sinistra su muro ripido
del 2° tiro del parte superiore


Barbara intanto gridava in alto verso di me: “Pensi forse che la roccia migliori se insisti ad imprecare e a batterla col martello come un indemoniato?” Io replicavo polemizzando in modo ancora più furioso, mostrando di non riuscire a sopportare questo tipo di roccia e di non voler neanche provare a sopportarlo. Ostinato, dichiaravo persino di rifiutare il tentativo di questa apertura di via e che non saremmo mai più saliti in questa zona. Alcuni giorni dopo ho incontrato Ivo Rabanser e gli ho raccontato, ancora profondamente sconfortato, dell'esperienza terribile e insopportabile nella zona d'uscita della via. Lui però non dava ascolto ai miei lamenti, fatto che ho vissuto quasi come una mancanza di comprensione. Mi proponeva invece, nonostante la situazione disperata in cui mi trovavo, di aggiungere alla via anche la parte bassa della parete: anni fa lui era avanzato in quel punto per tre tiri e c’era da superare un grande tetto con friend e dadi. Mi guardava e diceva: “Sarà un’ impresa bellissima!”

Ho combattuto contro i miei sentimenti, poi sono corso con il binocolo sotto la parete, spostandomi di qua e di là come un fuggiasco punto da insetti. L’uscita della via era intollerabile, del tutto incompatibile con un sentimento di bellezza, ora però gli occhi di Ivo scintillavano e parlavano solamente del bello che sarebbe scaturito dal nuovo itinerario. Credo che Ivo non sia del tutto innocente riguardo la Nevrosi Kalokagathia. Il tormento dei sentimenti, tra rassegnazione e impulso irresistibile di sfatare la bruttezza della roccia con un tocco beato cosicché si sarebbe potuta trasformare in un futuro paradiso, mi accompagnava continuamente. Come avrei potuto dormire tranquillo quando due terzi della via apparivano fantastici e poi, proprio quando l’arrampicata arrivava alla sua culminazione, nell'ariosità dei tiri superiori attendeva questa interruzione traumatizzante e raccapricciante. Ciò fa rabbrividire fino al midollo non solo noi, ma anche un ripetitore della via che resterebbe sicuramente traumatizzato in questi ultimi tiri.

Nel successivo tentativo di redimere le rocce dalla loro miseria ho buttato alcuni blocchi fuori dal camino, come un gufo che vive in una grotta e che pulisce il suo nido. Per ripicca la roccia non è migliorata, anzi lo sporco aumentava solamente. Eravamo sul punto di essere internati in una clinica. Nel frattempo la fissazione per il bello, per quanto delusa ad ogni nuovo sforzo di pulizia, aumentava e restavamo imprigionati nella nostra idea.  La roccia si opponeva rigurgitando e mostrando il suo lato brutto. Dove era finita la bellezza?

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L'ultimo tiro - "La piuma"
Successivamente siamo saliti ancora una volta, con una nuova idea: fare un’uscita a sinistra del friabile camino finale, su uno spigolo arioso, ripido e sporgente. Il bello deve esistere, la montagna deve essere riscattata! I miei nervi cominciavano finalmente a ravvivarsi un po’ e a rigenerarsi: c’erano fessure e roccia solida. I friend entravano quasi automaticamente nelle cavità delle fessure. Mi sentivo in uno stato simile alla beatitudine e guidato da questa piacevole sensazione toglievo il friend per introdurlo di nuovo, vedendolo adattarsi alla perfezione. Avrei potuto godere in eterno di questo gioco di introdurre e togliere. Ho detto a Barbara, esagerando come ogni alpinista riesce a fare molto bene, che persino un cieco col bastone avrebbe saputo piantare un friend là. Quale armonia! Il viso di Barbara era adesso totalmente rilassato e quando abbiamo piantato l’ultimo anello sulla cima lei, con labbra sorridenti, ha detto semplicemente: “Lo sapevo fin dall’inizio che sarebbe diventato bello.” Dall’uscita sporca di detriti grossi è sorto uno spigolo con uno slancio verso l'alto simile a una piuma, che abbiamo perciò chiamato “la piuma” a causa di questa sua caratteristica.

In collaborazione con Ivo abbiamo infine portato a compimento la parte bassa: un tetto di 18 metri entusiasmava il nostro amico arrampicatore sudtirolese. Io potevo “assaporare” con piacere la riga nera lasciata dall'acqua, lunga 100 m ma asciutta. Arrampicare come secondo di cordata, cosa per me insolita, lasciava persino spazio per alcuni pensieri sul concetto di bellezza. Volevamo, ed Ivo lo poteva confermare, creare qualcosa di bello.
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Il "Tetto Rabanser"

Una nevrosi, come ormai il lettore dovrebbe sapere, è molto difficile da guarire. La Nevrosi Kalokagathia ha diversi stadi, iniziando con una fissazione forzata per la bellezza fino a sfociare in una vanità incontentabile che può infine dominare il paziente in ogni suo comportamento. Arrampicare in queste zone delle Dolomiti presenta notevoli rischi di contagio. Il numero dei colpiti è impreciso ma la quantità sembra essere molto alta. Le prognosi sono purtroppo piuttosto sfavorevoli se la malattia si trova già in uno stato avanzato.

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